Perchè l’8 marzo: la storia per meglio capire la festa delle donne. Continua la nostra iniziativa, nel ripercorrere le lotte e le vittorie delle donne. Oggi: 1946 il voto alle donne italiane
Il primo paese al mondo a decidere il suffragio femminile è stato la Nuova Zelanda nel 1893, seguita dall’Australia, i paesi scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), poi nel 1918, è la prima volta in assoluto in cui le donne votano negli Stati Uniti, nel 1928 nel Regno Unito, in Italia e in Francia nel 1946.
In Italia le donne furono considerate cittadine al pari degli uomini solo alla fine della Seconda guerra mondiale, il 10 marzo del 1946. La loro prima occasione al voto non fu il referendum del 2 giugno 1946 per scegliere tra monarchia e repubblica, come pensano in molti, bensì le amministrative di qualche mese prima, quando le donne risposero in massa e l’affluenza superò l’89 per cento.
Circa 2 mila candidate vennero anche elette nei consigli comunali. La stessa partecipazione ci fu per il referendum del 2 giugno.
Ma la conquista dei diritti politici è il risultato di una lunga e dura battaglia.
La prima via italiana al riconoscimento di un suffragio davvero universale fu quella giudiziaria. Il 17 marzo del 1861, la carta fondamentale della nuova Italia Unita divenne lo Statuto Albertino che all’articolo 24 diceva:
«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi».
Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.
Nel frattempo, nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista, rifacendosi alle esperienze inglesi, francesi e statunitensi presentò una petizione al governo «per il voto politico alle donne», la prima di una lunga serie ad essere bocciata.
Il 26 febbraio del 1906 Maria Montessori sul giornale La vita scrisse un articolo in cui ribadiva l’invito specificando che la legge non poneva alcun esplicito divieto. Quello stesso anno le Corti di appello di sei città (Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono altrettante sentenze per bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali avevano accolto.
Clamorosamente, la Corte di appello di Ancona presieduta da Ludovico Mortara fu l’unica ad accogliere la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali.
Era stata presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano e poiché non aveva precedenti ne parlarono tutti, giuristi e giornali. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza venne però rovesciata: non in base a quello che l’articolo 24 diceva, ma in base a quello che non diceva. In base, cioè, a una radicata consuetudine.
Ci sono voluti altri 40 anni di lotte, quando il 30 gennaio del 1945 con l’Europa ancora in guerra e il nord Italia sotto l’occupazione tedesca, durante una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del suffragio femminile che venne sbrigativamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, di inevitabile.
Il decreto fu emanato il giorno dopo: potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Nel decreto venne però dimenticato un particolare non da poco: l’eleggibilità delle donne che venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946.
Oggi le donne italiane sono oltre la metà dei cittadini aventi diritto al voto.
Sono passati 74 anni dal suffragio universale che in Italia ha permesso alle donne di votare e di essere votate alle elezioni. Un passo importante che ha inciso profondamente sul cambiamento delle condizioni di vita di tutti. La strada per arrivarci è stata lunga, e ne manca ancora per una piena cittadinanza.